giovedì 24 Aprile 2025
spot_img
HomeMondo GolfNewsIl loro (e il mio) Masters

Il loro (e il mio) Masters

La nostra socia Silvia Audisio, estratta a sorte per partecipare ad una gara fra giornalisti, ci racconta la sua indimenticabile giornata sui green di Augusta

-

La nostra socia Silvia Audisio, estratta a sorte per partecipare ad una gara fra giornalisti, ci racconta la sua indimenticabile giornata sui green di Augusta

Pubblicato da Sportweek, RCS Aprile 2023

Mai prenotare il volo di ritorno il lunedì dopo il Masters. Perché, se sei un giornalista accreditato al torneo, sai che esiste la remotissima possibilità di giocare in quel tempio del golf che è l’Augusta National. La sorte. Quel numerino che tieni in tasca tutta la settimana potrebbe essere estratto tra i circa cinquecento giornalisti che ambiscono a tanto onore. La fortuna (smisurata) tocca a me e il mio nome compare su un monitor insieme a una decina di altri. Mi avvicino incredula. Questo campo è off-limits per il mondo intero, vi hanno accesso solo i migliori che giocano il torneo dal 1934 e i soci. Pochissime, e da poco, le donne.

Il briefing è immediato, per sapere bene tutto quello che non bisognerà fare secondo le regole strettissime che coinvolgono per tutta la settimana giocatori, «patrons» (come Augusta ama chiamare i suoi spettatori affezionati) e giornalisti. Le foto ad esempio, solo con macchina fotografica (che non possa trasmettere) e solo per uso personale (niente social). Telefoni cellulari proibiti. Invito e carta d’identità da esibire al gate e sul tee della buca uno. Un’ora per lasciare il club una volta finito di giocare.

L’esperienza è strepitosa. La giornata (performance a parte) è esattamente quella di Tiger, Rory, Scottie e gli altri. Perché l’ingresso è dal Magnolia Lane Gate, e quel viale che porta alla club house è sempre stato l’accesso a un sogno per i grandi giocatori. Impensabile percorrerlo per le giocatrici fino al 2020, anno del primo Women’s Amateur, svolta storica per il club tutto al maschile. Lo percorro con emozione e rispetto, condizioni che mi accompagneranno tutto il giorno. In fondo al viale una grande aiuola: si chiama Founders Circle e rende omaggio a Bobby Jones e Clifford Roberts, anima, mente e cuore dell’Augusta National.

La mia sacca sparisce e le porte della club house si aprono, insieme ai 150 anni di storia di questa casa allora piazzata in mezzo a una piantagione di alberi da frutta, e ai quasi novanta di Masters. Il tempio è qui, intimo e prezioso, semplice e ricco. Il golf ti viene incontro con le sue storie di campioni, i volti, i bastoni, le memorie. C’è il grande trofeo al centro della sala, è la club house riprodotta in 45 chili d’argento con incisi i nomi di chi il Masters lo ha vinto (a lui ne va una copia più piccola). La Library e una statua in bronzo di Bobby Jones ti aspettano in cima a una scala a chiocciola; qui c’è la scrivania in cuoio verde del presidente Eisenhower, già membro del club, insieme a foto, libri e ceramiche in onore dei fondatori; qui, il martedì prima del torneo, si celebra il Champions’ Dinner, solo loro, tutti ospiti del defender per una bella serata di racconti tra amici, cose da campioni. Qui ho consumato il mio breakfast, prima di condividere l’armadietto con Billy Casper (leggendario vincitore nel 1970) nello spogliatoio dove una giacca verde ricorda che siamo nella «Masters Club Room – Private», per soli campioni. Prima di uscire dalla club house l’occhio cade su una vetrina che custodisce gli undici bastoni giocati da Bobby Jones per vincere, da amateur, il Grande Slam nel 1930.

La mia sacca ricompare in campo pratica insieme a Gibby, il caddie in tuta bianca e berretto verde che mi aspetta. È il primo impatto con la perfezione. Poi, sul tee della buca uno (non esiste una partenza per le donne, solo masters e soci) l’emozione è grande, lo starter annuncia il mio nome insieme a quello dei tre compagni di gioco, ed è il momento della foto ufficiale. Sono passate solo sedici ore, una notte, da quando Scottie Sheffler ha indossato la sua prima giacca verde, c’erano quarantamila persone in campo, punti di ristoro, golf shop. Come tutto questo non fosse mai accaduto, neppure un pezzetto di carta sull’erba, silenzio assoluto. Quello che non è cambiato dal giorno prima (purtroppo) sono le posizioni delle bandiere, quelle impossibili della domenica di ogni Masters.

Non resta che tirare e poi camminare su quei fairway impeccabili (chiusi al gioco per sei mesi prima dell’appuntamento di aprile), osare tanto, prendere la scena e sognare, cambiare punto di vista e vedere con gli occhi dei più grandi. La mia buca uno racconta l’intera esperienza di gioco. Due buoni colpi con palla a sei metri dalla bandiera, green appena in discesa, quattro putt. È la dura legge dell’Augusta National, dove putt e approcci sono un mondo a parte, come la sensibilità che richiedono. Lezione e spettacolo, con le azalee di mille colori che fanno da quinta al gioco. Dettagli. Decisioni da prendere ad ogni colpo, strategia. Ricordo quanto mi disse Bernhard Langer, quaranta Masters giocati: «Tornare qui tante volte aiuta a capire come attaccare le diverse posizioni di bandiera. Il campo è cambiato tanto dagli anni ’80 e ’90, allora non c’era rough, solo fairway e alberi; ciò che contava era piazzare il secondo colpo. Poi hanno aggiunto migliaia di piante e dal rough è più complicato fermare la palla sul green, dunque il primo colpo è diventato più difficile quanto fondamentale. Ma nulla sostituisce la sensibilità che devi avere qui».

Buca dopo buca, rivivo le esperienze dei campioni, immagino quei colpi memorabili, exploit e disavventure che ho visto tante volte in televisione, seguito a bordo campo o raccontato dalla sala stampa. Immagino la gente intorno, ascolto i lunghi silenzi e i boati. Penso alle parole di Tiger dopo 24 anni di Masters: «È incredibile come ogni cambiamento fatto al campo sembri così da sempre. E poi la gente, vedi sempre le stesse persone in certe buche e tutte con i badge di una vita, conoscono il golf e questa gara. Non ci sono tornei simili. Il campo è speciale, l’atmosfera è speciale, qui senti i boati del pubblico. Che abbia vinto o perso, è stato eccitante farne parte».

Ma poiché, come si dice, il Masters inizia solo con le seconde nove buche di domenica (dove qualsiasi cosa può accadere), alla 10 mi metto nei panni del ventunenne Rory (2011) in vantaggio di un colpo su quel tee. La sua palla però parte a sinistra, prende un albero e finisce nel bosco tra due case. Chiude la buca in 7 colpi e prosegue disorientato fino alla fine. Da leader al quindicesimo posto finale. «Masters Disasters». La 12 merita una pausa, una meravigliosa creatura da ammirare e temere, con il vento che gira rimbalzando tra i pini altissimi e l’incertezza del bastone da giocare. Penso a Jordan Spieth (2016) che qui ha affondato due palle nell’acqua davanti al green e con esse la seconda giacca verde.

Arrivo alla buca 13 e ricordo le parole di Bernhard Langer, quasi diecimila colpi tirati ad Augusta. Il più bello? «La domenica del Masters 1993, il mio secondo titolo, qui ho giocato un magnifico drive e poi il ferro 3 più bello della mia vita, sull’acqua, a cinque metri dall’asta. Ho imbucato per l’eagle e ho incrementato il vantaggio verso la vittoria. La 13 è la mia favorita, magnifica alla vista mentre cammini in mezzo al fairway, una buca che presenta rischi e ricompense, che premia il bel colpo e punisce l’azzardo. Devi decidere se giocare prima del Rae’s Creek, il fiumiciattolo che l’attraversa davanti al green, oppure attaccare. Dall’eagle al disastro è un attimo». Mi godo la scena di 1.600 azalee a bordo campo e immagino quel momento.

Alla 15 penso a Francesco Molinari (leader nel 2019 fino a tre buche prima) e ripercorro i suoi colpi, con quella maledetta pigna centrata in pieno che lo mette fuori gioco dopo un torneo esemplare e la vittoria sul piatto.

Ma è sull’ultimo green che tutto si compie e qui rivivo un momento da brividi. Aprile 2019, Tiger imbuca e alza le braccia al cielo travolto da un boato incredibile. Quel giorno vince il suo quinto Masters e firma uno dei ritorni al successo più incredibili nella storia dello sport. Finisco il mio giro, come se avessi giocato uno e cento Masters. E lascio Augusta come un anno prima aveva fatto il caddie del vincitore Hideki Matsuyama che, in mezzo al green, si era tolto il cappello inchinandosi al campo in segno di ringraziamento.

Newsletter

Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.

Associati a AIGG

Più letti

All’Augusta Masters è caccia allo Gnomo

Un fenomeno di costume che solo all’Augusta National poteva prendere piede: ressa nei pro-shop per accaparrarsi il Masters Gnome

Newsletter

Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.