giovedì 24 Aprile 2025
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Dentro il Masters, tra campioni, storie e leggende

Il racconto di Stefano Cazzetta, inviato ad Augusta, ci porta dietro le quinte e nel passato: tra aneddoti, curiosità e giocatori entrati nella storia del golf

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Il racconto di Stefano Cazzetta, inviato ad Augusta, ci porta dietro le quinte e nel passato: tra aneddoti, curiosità e giocatori entrati nella storia del golf

Augusta (Georgia, Usa)

Per chi può, l’ingresso all’Augusta National è al 2064 di Washington, ma per entrare da lì bisogna essere soci, ospiti dei soci o, in questi giorni, giocatori del Masters. I fortunati possono vivere l’esperienza di percorrere Magnola Lane, il viale costeggiato da 60 magnolie giganti che porta verso la suggestiva club house, davanti alla quale, sotto un pennone, due placche ricordano i fondatori Bobby Jones e Clifford Roberts.

L’esperienza è Vietata a tutti gli altri, a meno che non vogliate fare come quel tale Charlie Harris che, nel 1983, sfondò con il suo pick-up il cancello e una volta in club house prese in ostaggio cinque persone. Voleva parlare con il presidente Ronald Regan, che in quel momento era in campo a giocare. Finì, naturalmente in prigione.

C’è da chiedersi se il gioco vale la candela. Ma da qualunque parte si entri all’Augusta National, la sensazione è una sola: ti trovi un posto speciale, quasi irreale per quanto sia bello e diverso da qualunque altro posto. Tutto è curato e ai limiti della perfezione. In certi casi sembra addirittura superarla.

Innanzitutto i colori: il verde dominante, di una tonalità che non trovi altrove, le aiuole, lo splendore delle azalee fiorite. Com’è possibile tutto ciò? Le leggende (vere, verosimili, irreali, comunque affascinanti) si inseguono. Sono lontani i tempi in cui Bobby Jones, nel 1942, quando il campo fu chiuso per la Seconda guerra mondiale, pensò di acquistare 200 mucche da lasciare libere al pascolo per mantenere la salute del manto erboso. In realtà, l’impresa si rivelò fallimentare: la mancata semina tolse nutrimento alle povere bestie, che dovettero ripiegare sui fiori e sulle cortecce degli alberi. Il classico caso in cui il rimedio è peggio del problema.

Oggi le tecniche sono naturalmente diverse, e sicuramente più efficaci. Si dice che venga usata un’enorme di quantità di ghiaccio. Sarà vero? La smentita sembra più che plausibile. Ce ne vorrebbe una quantità inestimabile e l’Alaska non è proprio a due passi…
In ogni caso, il risultato è sotto gli occhi di tutti. Davanti alla tv o guardando con i propri occhi, l’effetto è il medesimo: stupefacente. Prendiamo il campo pratica: ci potresti giocare il Masters per quanto è perfetto. Non ti viene in mente nessun campo del mondo che abbia un fairway migliore di questo, che in fondo è solo destinato agli allenamenti.

Dalla grande tribuna, o da dietro le corde, vedi all’opera i campioni che si preparano alla gara: li osservi con ammirazione, ma anche con la segreta speranza di cogliere qualcosa, di carpire un segreto che possa aiutare a migliorare il tuo swing. In realtà non è neppure una speranza, è solo un’illusione, ma in fondo è a costo zero, dunque a buon prezzo.

Ti soffermi anche sui caddie, tutti di bianco vestiti. Ti chiedi se dentro quelle tutte non soffrano il caldo e ti rispondi che è molto probabile, soprattutto nei giorni in cui il sole picchia forte e l’’Augusta National non è proprio una distesa pianeggiante. Sul retro della tuta c’è il nome del giocatore, sul davanti il numero di pettorale, cifra che non è casuale. L’1 è l’unico numero assegnato a prescindere, poiché spetta al campione in carica, dunque a Scottie Scheffler. Tutti gli altri seguono l’ordine di registrazione. Il primo ad arrivare, quest’anno, è stato dunque Max Greyserman (2), l’ultimo Phil Mickelson (95).

Procediamo verso il tee della 1, immettiamoci nella marea di patron che si muove allegra e compatta. No, non quella di destra: quella è la fila per il primo grande pro-shop. Un serpentone infinito. Dove comincia? Indietro, molto più indietro. Sarebbe curioso sapere quanta strada si fa a percorrerlo tutto. Comunque la fila scorre veloce perché se serve tanto tempo per entrare, ad uscire si fa più in fretta: 80 casse sono pronte a sbrigare le pratiche di imbustamento e pagamento e ognuna di esse ha due addetti. Solo carte di credito, no cash, please. E per fortuna che un altro grande store è collocato al fianco della buca 5 e un altro ancora sta per essere costruito, senza contare i numerosi chioschi per l’acquisto mordi e fuggi. Ok, il Masters, si sa, è anche questo: un enorme business.

Superata la prima “concession” (le enormi aree destinate al cibo e alle bevande), ti appare lo spettacolare scenario del campo. A destra l’enorme tabellone generale, aggiornato rigorosamente a mano, perché qui, e più che mai qui, tra questi pini e queste azalee il tempo sembra essersi fermato. In fondo è giusto così: talmente uguali a se stessi da essere diversi da tutti gli altri. Oppure così diversi da essere sempre uguali, un ossimoro che rende l’idea.

Il tee della 1 è lassù, bisogna fare un po’ di salita, la prima di tante. Una volta arrivati, ci si trova sul retro della club house ed è impossibile non rimanere incantati dalla Big Oak Tree, l’enorme quercia dal diametro di oltre trenta metri, piantata nel 1850. Una vera istituzione. Se vuoi dare appuntamento a qualcuno, la frase è quasi sempre solo una: .

Intanto, sul tee c’è qualcuno in partenza. Non ci sono tribune: qui come alla 10 o a tante altre buche o agli arrivi della 9 e della 18. Solo sedioline verdi, tantissime e ordinate, di proprietà dei patron. Chi non ne possiede una sta in piedi, con l’orecchio teso a cogliere la voce dello starter che senza microfoni fa i suoi annunci per poi cercare un pertugio dal quale poter assistere al colpo o almeno di vedere il volo della palla. Alle tue spalle il grande leaderboard che ospita, appunto, solo i leader. E il giocatore del quale vuoi sapere come sta andando e non è tra i primi? Non c’è modo di saperlo. Megaschermi? Neanche a parlarne, ma pensate che qualcuno si lamenti? Assolutamente no, il Masters è questo. Prendere o lasciare. E conviene prendere, di sicuro.

Dalla 1 comincia un lungo viaggio, una immersione totale nel fascino e nella storia. Ogni buca ha qualcosa da raccontare e non solo le imprese dei campioni che l’hanno giocata. Ecco la buca 5, un lungo par 4 che è stato deciso di allungare, spostando all’indietro il tee di partenza. A proposito: ce ne sono solo di due tipi: quello del Masters e quello dei soci. Stop. Tra i due passa circa un chilometro di lunghezza. Poi il par 3 della 6 che confina con quello della 16, dove Tiger ha firmato un’impesa pazzesca. Ricordate l’approccio che sale verso sinistra per poi deviare verso destra, rotolare verso la buca, salvo fermarsi a favore di marchio prima di finirci dentro? Era il 2005, giusto vent’anni fa. Ma è impossibile dimenticare.

Visto che siamo sulla 16, facciamo visita alla fontana dedicata a Arnold Palmer. Non è l’unica, ce n’è anche una dedicata a Jack Nicklaus, e anche un’altra, di forma ottagonale, che è stata spostata vicino al campo pratica: quest’ultima ospita targhe con i nomi dei vincitori e dei record del Masters. L’Augusta National non dimentica chi ha contribuito a crearne la fama. Ecco allora i tre famosi ponti. L’Hogan Bridge è quello che ti porta sul green della famigerata 12, la Golden Bell, teatro di tante imprese ma anche di tanti crolli (ahi, Francesco Molinari…), il Nelson Bridge porta i giocatori dal tee al fairway della 13 e infine il Gene Sarazen che conduce sul green della 15.

I primi due fanno parte dell’Amen corner, a proposito del quale, qualcosa è cambiato: il recente uragano Helen ha avuto i suoi effetti anche qui, sradicando un buon numero di alberi. Nonostante le nuove piantumazioni, lo scenario non è lo stesso. Se, ad esempio, venendo giù dalla 11, punti lo sguardo verso il green della 12 e il tee della 13, riesci a vedere uno scorcio del percorso del confinante Country Club, prima assolutamente invisibile. Ma qualcosa è cambiato anche sul piano tecnico. Soprattutto alla 10, dove la caduta di alcuni alberi sulla sinistra propone nuove e insperate traiettorie ai giocatori. Togliendo loro qualche problema. In ogni caso, l’albero caduto più famoso resta quello della 17. Eisenhower lo colpiva ogni volta e a più riprese propose agli altri soci di abbatterlo. La richiesta fu sempre respinta, perché neppure il presidente degli Stati Uniti può prevaricare la storia dell’Augusta National. L’albero ora non c’è più, ma solo per volere di madre natura e di una tempesta di neve che ne provocò la gelata e il conseguente abbattimento.

Superata la 17, ecco la 18, un lungo budello che se sbagli a destra sei nei guai, ma se sei in testa puoi percorrerlo come il più esaltante cammino trionfale. Lo hanno fatto tutti i grandi del passato: 6 volte Nicklaus, 5 volte Tiger Woods, 4 volte Arnold Palmer e via via tanti altri, come Bernard Langer, che proprio ieri ha salutato dopo 41 apparizioni.

All’Augusta National è in corso l’89° Masters, ma è impossibile, immergersi e non lasciarsi rapire anche dalla sua storia e dalle sue leggende; In poche parole, dalla sua infinita bellezza.

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