E’ un campo che divide i pareri degli stessi esperti e addetti ai lavori. Per alcuni è un percorso straordinario, ricco di fascino, tra i più belli della Gran Bretagna. Per altri non è niente di tutto questo, non è spettacolare e ha un disegno confuso. Su una cosa, però, si trovano tutti d’accordo: il Royal St. George’s Golf Club è un campo difficile, maledettamente difficile. In ogni caso, sia per l’unicità e la qualità tecnica del disegno che per la storia che lo accompagna, il Royal St. George’s è sempre stato presente nella classifica dei migliori 100 campi del mondo. Queste 18 buche in grado di far emergere pareri così contrastanti si trovano lungo la baia sassosa di Sandwich, la cittadina affacciata sul Mare del Nord nel Kent, la contea inglese che si trova nella zona sud-orientale della Gran Bretagna e conosciuta anche come il “giardino d’Inghilterra”. Le “white cliffs” di Dover si trovano appena a 20 km. a sud di Sandwich. Il Royal St. George’s è un campo di grande tradizione (è stato inaugurato nel 1887) e fa parte della “rota” dell’Open Championship, quel gruppo ristretto di percorsi sui quali si disputa il più antico dei Majors. Qui se ne sono giocate 15 edizioni: la prima nel 1894 quando si impose l’inglese John Taylor, l’ultima nel 2021 vinta dall’americano Collin Morikawa. L’idea di realizzare questo percorso venne nel 1885 al dottor William Laidlaw Purves, socio del Wimbledon Golf Club di Londra, il quale pensò che le dune di questo lembo di terra fossero perfette per ricavarne un grande links. Il campo venne completato due anni più tardi e fu intitolato al santo patrono d’Inghilterra. Nel 1902 arrivò anche il riconoscimento della casa reale. Il disegno originale aveva diverse buche cieche che non permettevano di individuare i tanti pericoli disseminati sul tracciato. Così nel 1970 l’architetto Frank Pennik “addolcì” un po’ il tracciato rendendolo più giocabile anche se il Royal St. George’s rimane sempre uno dei campi più ostici di tutto il Regno Unito. Il suo design non ricalca lo stile classico dei links con nove buche che “escono” e altre nove che “tornano”. Sembra piuttosto che il progettista abbia mescolato un po’ a casaccio la sequenza delle buche con le prime nove che si intersecano con le seconde rendendo complicato a chi lo gioca per la prima volta riuscire a orientarsi sul campo. In questo apparente caos del design spicca la curiosità dei quattro par tre ognuno dei quali ha una linea di tiro diversa che corrisponde esattamente ai quattro punti cardinali il che diventa un bel problema quando soffia il vento. In più bisogna fare i conti con la mancanza di segnaletica sul percorso per cui la ricerca del “next tee” non è così facile e bisogna affidarsi alla mappa che è bene acquistare al pro-shop. Il Royal St. George’s, quindi, fa molto poco per farsi voler bene e in più ti mette alla prova come pochi altri campi: è lunghissimo (per i “pro” è un par 70 di oltre 6.600 metri) ed è molto difficile (per gli amateurs è un par 72 con SSS 76). I tee shot di parecchie buche sono piuttosto complicati sia per una visuale ridotta dei fairway a causa delle numerose dune che per la conformazione del disegno che richiede colpi lunghi e precisi. La manutenzione è quasi perfetta ma guai a finire nel rough dove la festuca regna incontrastata. Non ci sono molti bunker come accade normalmente nei links, ma sono tutti in gioco, specialmente attorno ai green. Non a caso per giocare su questo tracciato viene richiesto un handicap non superiore a 18. Non è, come può apparire a prima vista, una richiesta selettiva o elitaria, ma, al contrario, si propone di evitare ai giocatori con abilità golfistiche non elevate di andare incontro a una giornata che potrebbe far maledire l’idea di aver pagato un green fee di oltre 400 euro per passare il tempo a cercare palline o a tirare colpi da posizioni impossibili. Da tenere presente che per i visitatori giocare su questo campo non è proprio facilissimo in quanto i tee time per i non soci sono pochissimi e disponibili solo in un paio di giorni della settimana. Le regole del dress code sono piuttosto rigide: per entrare nella club house è richiesta la giacca e l’abbigliamento dei giocatori in campo (è indicata pure la lunghezza dei pantaloni stile “bermuda”) è ben specificato all’ingresso del club. Inoltre è severamente proibito l’uso del cellulare in tutte le aree del circolo con l’esclusione del parcheggio. Insomma non certo la migliore delle accoglienze. Non c’è nulla di artificiale al Royal St. Geroge’s perché il suo aspetto naturale originario è sempre stato mantenuto praticamente intatto. Con soli quattro tee di partenza per ogni buca questo percorso non è molto flessibile sulla lunghezza per cui se non si dispone di un gioco potente, soprattutto dal tee, queste 18 buche possono regalare più dolori che gioie. C’è il battitore “Championship”, il più arretrato da dove giocano i professionisti, c’è quello “Medal”, da dove partono le gare amateurs, c’è il “Weekday”, quello normalmente destinato ai soci, e il “Pinto”, il più avanzato di tutti che viene utilizzato dai seniores e dalle donne in quanto non esiste un tee esclusivamente riservato alle giocatrici. Questo links così aspro e per nulla scenografico sembra fare di tutto per scoraggiare chi lo voglia conoscere. Invece avere la possibilità di giocarlo è un’esperienza davvero unica. Se da un lato le insidie del percorso sono sempre dietro l’angolo a punire i brutti colpi, pochi altri campi danno la stessa soddisfazione quando si riesce ad uscire dal green con il par. Ed è questa la vera sfida del Royal St. George’s: ti mette alla prova in maniera quasi estrema ma se la superi la gratificazione è doppia! Sin dalle prime buche si intuisce cosa attendersi. Il primo test arriva alla 4, il più lungo par quattro del campo con i suoi 447 metri e il suo accentuato dog-leg da destra a sinistra. Sul tee shot entra in gioco un gigantesco bunker che domina il lato destro (è il più alto e il più profondo di tutta la Gran Bretagna) mentre il green è circondato dagli alberi. Tra una buca e l’altra ci sono ampi spazi e il giocatore fa fatica nel trovare punti di riferimento anche perché sul tracciato non esistono indicazioni sulle distanze dai green che sono tutti piuttosto grandi, pieni di ondulazioni e spesso circondati da dune ricoperte di festuca. La buca 9 arriva vicino alla clubhouse, un edificio in classico stile vittoriano dove si trovano la segreteria, gli spogliatoi, il ristorante e numerose sale dove tutto richiama la storia e la tradizione del circolo. Proprio al Royal St. George’s Ian Fleming, l’inventore della saga dell’agente segreto 007, ambientò una scena del film “Agente 007, Missione Goldfinger”. Fleming era socio del circolo e al momento della sua morte occupava la carica di capitano del club. Tutto ciò ha aggiunto fama e prestigio al Royal St. Georges. Non esistono buche facili o semplici su questo tracciato e quelle conclusive confermano questa impressione con un crescendo di difficoltà che inizia dal par cinque della 14, dove il fuori limite costeggia la destra della buca dal tee al green, e finisce con il lungo par quattro in leggera salita della 18. In mezzo ci stanno due par quattro infiniti, la 15 e la 17, e il par tre corto ma micidiale della 16. Un finale degno di un grande campo. Per i giocatori meno abili c’è da segnalare che proprio accanto al Royal St. George’s, addirittura confinanti in alcuni punti, ci sono altri due splendidi links decisamente più abbordabili dal punto di vista tecnico e di ottima qualità: il Royal Cinque Ports e il Prince’s, entrambi con una storia centenaria. Lungo la spiaggia di Sandwich non mancano certo le opportunità per giocare su grandi campi.