Tutti, chi più chi meno, abbiamo preso dimestichezza con numeri, somme, differenze attraverso i problemi di aritmetica delle Elementari. Quelli delle vasche da bagno di una data dimensione da riempire in un dato tempo, tenendo presente la portata del getto d’acqua ma anche la scarsa tenuta del tappo fondo-vasca che, invariabilmente, disperdeva una certa quantità di acqua.
È da lì che, personalmente, ho maturato una certa avversione per le scienze, buttandomi sull’umanistica e gli studi classici. Perché quel tipo di problemi io l’avrei risolto chiamando l’idraulico: la vasca si sarebbe riempita nel tempo giusto e chiusa lì, senza troppe complicazioni.
Però con i numeri dobbiamo sempre avere a che fare e allora, adesso che siamo tornati dalle vacanze, propongo un compitino di aritmetica per risvegliare la mente.
Problema: il foro circolare ha un diametro di 10,8 cm. La pallina ha un diametro di 4,2 centimetri. Posto dunque che la differenza di 6,6 centimetri equivale a un’altra pallina e mezza, quante volte il Carrellante riuscirà a imbucare il primo colpo, anche da corta distanza?
Come noto, una soluzione valida per tutti non c’è. Ma molti, ritengo, si sentiranno di escludere alte percentuali di realizzazione.
Eppure, come abbiamo appena ricordato, la pallina è ben più piccola della buca e, aritmeticamente, avrebbe ottime probabilità di finirci dentro. Se così non accade (e, almeno per quanto mi riguarda, NON accade) le scienze esatte ne escono male, mentre trionfano quelle ritenute inesatte (come la filosofia su cui mi buttai all’Università).
Di fronte al problema, non c’è maestro che non inviti i suoi allievi a passare in putting green molto più tempo che in campo pratica. Perché alla fine è sempre il gioco sul green a fare la differenza. Verissimo. Ma l’arte del putt non si fonda tanto sulla tecnica (che a suo modo è una scienza esatta) quanto su variabili indipendenti come la tensione o la fiducia in sé stessi.
Se si va sulla palla con la paura dei tre putt, 99 volte su 100 non s’imbuca. In allenamento non si ha mai paura dei tre putt (a meno di autoinfliggersi punizioni severe ad ogni errore) mentre, quando si è in campo, si avverte tensione pure da mezzo metro.
E gli Dei del golf, periodicamente sacramentati, sanno quante volte a un passo dalla conclusione tutto venga rovinato da quel virus tremendo chiamato yip.
Anni fa, la PGA Italiana invitò ad un suo seminario tenuto al Castello di Tolcinasco Hank Haney, all’epoca coach del Tiger Woods dei tempi d’oro.
Infiltrato tra i professionisti schierati sul putting green, ascoltai Haney raccontare che, in preparazione a un Open Championship di quel periodo, Tiger si era imposto di imbucare, in allenamento, circa 300 (dicesi trecento) putt consecutivi dalla corta distanza. Lo fece. Poi volò nel Regno Unito, si presentò sul tee della 1 (ma non ricordo quale fosse il campo) e, dopo un tee shot perfetto, stampò la pallina in asta, molto vicina alla buca. Si addressò sul putt e…lo sbagliò.
Le scienze inesatte avevano trionfato ancora una volta. L’episodio era insieme consolatorio e inquietante. Consolatorio, per il solito motivo: se capita anche a loro, perché non dovrebbe capitare anche a noi? Inquietante perché incrinava anche quella certezza che, dedicandosi a una pratica seria, si potesse risolvere il problema.
Il giorno dopo, nel dubbio, m’istallai comunque sul putting green ben prima della gara. 300 putt corti consecutivi non ce l’avrei comunque fatta a tirarli (non dico a imbucarli, solo a tirarli) ma una trentina sì. Ne calai un po’ più di venti prima di avviarmi sul tee della uno.
Sul primo green mi ritrovai un corto putt per il par (non il birdie, sia mai!). Mi addressai e lo sbagliai. I compagni si stupirono della mia esultanza nel veder la pallina sbordare. Non potevano sapere, loro, che così, finalmente, avevo qualcosa in comune con Tiger.